Quando “morire di freddo” non è un semplice modo di dire

Se ne stanno appollaiati sotto il ponte della Stazione Centrale di Milano, appena prima di Via Ferrante Aporti. Alle spalle, Piazzale Loreto. Negli ultimi giorni sono diventati numerosi. Con i loro stracci e soprattutto con le coperte, si addormentano lì. In mezzo ai gas di scarico. Dormono sotto i ponti nella più totale miseria. Stanno a morire di freddo.

Dicono che diano fastidio. Al decoro, soprattutto della città. Di solito a raccogliere queste testimonianze sono noti ricconi della destra sociale, quella peggiore, quella con il Rolex e l’idea dell’organo femminile sempre in testa. Sono quelli che vedi in TV, incipriati come zoccole che battono le strade della miseria. Accompagnati da cameramen che guadagnano, loro si, una miseria. Niente a che vedere con i cachet di certi prezzolati leccapiedi, riempiti di soldi per raccontarci come stanno i poveri. Loro che in realtà li schifano, ma sanno anche che i miseri, gli ultimi, portano ascolti in TV, la sera. Per cui: quale migliore occasione per raccontare la loro disperazione? A Milano sta gentaglia, raccapriccianti professionisti del dolore con il cachemire sotto il cappottino, producono lo story-telling più infame dal dopoguerra. Gente che gozzoviglia in ristoranti di lusso e gira su lussuose e merdose Maserati, rigorosamente d’ultimo modello, pontificano sulla povertà: sulle omissioni, sulle manchevolezze, sul fatto che sti poveri ci sono e invece sarebbe meglio non ci fossero. Fa già schifo così a raccontarlo. Va anche detto che la polemica, strumentale e tipica di persone senza alcun tributo morale, cui si sono sottratti già alla nascita, non è in realtà destituita di ogni fondamento. In una società civile queste persone affamate dalla miseria e violate nella loro dignità sotto quel ponte non dovrebbero starci. Non perché la miseria sia brutta da vedere. Non dovrebbero starci perché nessun uomo dovrebbe vedere violata così la propria dignità. Non in una città come Milano, dove c’è una diffusa ricchezza. Ricchezza, figlia del lavoro. Del lavoro pulito e del lavoro in nero. Compreso quello del caporalato di Piazzale Loreto e di Via dei Transiti, dove alle 6.00 del mattino passano i pulmini dei caporali. Proprio per questo se è esecrabile e vomitevole che la miseria sia spettacolarizzata da una destra sempre più becera ed infame; così anche il disinteresse della sinistra, l’immobilismo della sinistra, fa venire altrettanti disgustosi conati di vomito. I primi speculano, i secondi latitano. Avveniva anche prima, avveniva anche al contrario. Esseri umani considerati meno di zero, usati per interessi diversi. Nei caldi studi televisivi tra vallette scosciate e mancati magnaccia, che se annegassero per caso al largo delle acque libiche a causa di un naufragio, per citare Montanelli, di sicuro non mancherebbero alla contemporaneità, bene sarebbe azzerare la presenza di questi catorci di uomini senza attributi e senza morale. Ma anche in certi palazzi non male sarebbe prendere per il bavero questi mozzaorecchi gallonati, tronfi e boriosi, e condurli manu militari a spalare letame nelle stalle del Cremonese, dove ci si sveglia per lavorare alle ore 4.00 del mattino. Sarebbe non solo istruttivo; sarebbe un recupero etico di caratura internazionale.

Invece.

Invece questa dicotomia da letamaio permane e fa proseliti. Esempio conclamato di un’egolatria mediatica sempre più malata, dimentica alla fine di salvaguardare gli esseri umani, senza distinzione di sesso e di razza. Al contrario: fa lievitare le discriminazioni e gli odi sociali. Da un lato colpevolizza chi fa dormire sotto i ponti dei disperati. Dall’altro plaude chi fa crepare sul ponte di una nave decine di disperati in attesa di sbarcare. È il frutto di una sottocultura capitalista, in cui l’unico vero Dio, l’unico vero interesse altro non è che il danaro. “Chiagnono e fottono”. Seguite l’odore dei soldi. La mafia di questo si alimenta.

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