Suicidio nel napoletano: la ricerca della verità può restituire la dignità

Un suicidio avvenuto dentro una cantina e dopo aver lasciato una lettera. Un Professore, di un liceo Napoletano, il G.B Vico, è accusato di aver avuto rapporti intimi con due studentesse quindicenni che davanti ai magistrati avrebbero confermato le gravi imputazioni. Viene sottoposto all’esercizio di misure cautelari domiciliari.

A seguito di queste affermazioni il docente si è ucciso. Il codice di procedura penale sancisce che le accuse verranno archiviate per decesso del presunto colpevole.

Presunto tuttavia, perché in questa tragedia spira il vento dell’infamia verso un uomo che, posto davanti ad accuse gravissime ed esposto al pubblico ludibrio non ha avuto modo di potersi difendere. Perché il vento delle parole ha il potere di uccidere l’anima di una persona.

Il Professore possedeva una vecchia arma mai denunciata che ha reperito dai meandri della propria cantina. L’ha puntata su se stesso, dopo aver lasciato una drammatica lettera, in mano oggi agli inquirenti, in cui spiegherebbe il perché del gesto. Il riserbo che l’intera vicenda avrebbe richiesto si è infranto davanti al dolore dei figli del docente e alla rabbia dei colleghi che lo hanno descritto in modo unanime come una persona incapace di fare ciò di cui veniva accusato.

In queste ore di veleni all’interno della magistratura con gli inevitabili riflessi su di uno dei poteri dello Stato, occorre aggiungere una riflessione sul come certi eventi e certe accuse vengono trattate. Al netto delle ipotesi che potranno essere mosse e ammesso sia possibile davvero ricostruire gli eventi così come si sono dispiegati, resta la fragilità di due ragazzine che si dicono oggetto di rapporti sessuali con un loro professore. E resta anche la fragilità di un uomo adulto perché quest’ultima non è appannaggio solo dei ragazzi più giovani. È condizione umana.

Ora che s’indaga e ci si arrovella attorno alla questione del potere giudiziario, sarebbe finalmente opportuno porre la questione della tutela dell’immagine e della dignità anche di chi viene accusato di nefandezze che vanno comunque provate. Perché questo non è un caso isolato ma l’ennesima coazione a ripetere di una condizione di debolezza umana. Si muovono delle accuse, si apre un fascicolo d’indagine, scatta il pubblico ludibrio verso una persona di cui non si ha contezza reale di cosa abbia o non abbia fatto. E poi lo si travolge con il vento dell’infamia.

È arrivato il momento che la giustizia coltivi il suo obiettivo, ovvero cercare la verità. Nell’attesa della quale prerogativa assoluta dovrebbe essere quella di tutelare gli esseri umani dall’offesa della propria dignità. Altrimenti si fa oltraggio proprio alla giustizia che si vorrebbe venisse esercitata.

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