Vita da rider

Nuovi schiavi. Ecco come si definiscono quando parlano di loro. Senza diritti, senza tutele. Con paghe bassissime. In giro in bici o in moto pagati al massimo 4 Euro a consegna. Costretti a pagarsi i giorni in cui restano in casa, se offesi da un incidente di lavoro. Sono i rider che effettuano le consegne tutti i giorni in tutte le città italiane. E aumentano. Sono sempre di più. Soprattutto con la pandemia le consegne a casa sono aumentate in modo esponenziale. L’ipocondria collettiva alimentata da una stampa nazionale che tende ad impaurire la gente, ha sortito i suoi effetti.

I rider sono senza un vero contratto che ne normi le prestazioni. Addirittura acquisiti presso le compagnie di delivery ciascuno con contratti diversi, ma uniformemente precari. Anche otto o dodici ore al giorno di lavoro in cui magari si resta fermi per una parte della giornata, in mancanza di chiamate.

In più l’ostilità a volte di coloro che guardano queste persone come nemici, magari per la semplice ragione di avere una colore della pelle diversa. Dentro questa complessità si anima un mondo su cui si scarica la precarietà del lavoro sottopagato. Nell’intervista qui sotto l’intervista con Raja, sindacalista Cuba e con Abdul, egiziano, che oltre ad essere sindacalista di lavoro fa proprio il rider. E quando gli domando quanto guadagna un ragazzo che fa le consegne, me lo dice chiaramente: dopo 13 ore, c’è chi in tasca si mette 22 Euro. Non proprio una vita semplice. Sarebbe ora di cominciare a pensare a chi lavora e malgrado tutto non riesce a sopravvivere. Qualcosa non va, evidentemente