Dentro il carcere di Bollate: la pena come rieducazione

Entrare in un carcere non è una cosa semplice, neppure come visitatori. Isola di dolore, luogo di riflessione, ma anche di sofferenza personale, di libertà compressa per legge.

Milano Positiva ci è entrata nelle scorse ore, a Bollate, nelle more di un processo rieducativo che ha permesso che alcuni detenuti del penitenziario possano essere autorizzati, con permessi speciali, a consegnare in alcune chiese della città quel cibo che MilanonPositiva si occupa di raccogliere attraverso le imprese che lo mettono a disposizione , per quelle famiglie che in un momento di crisi come questo hanno bisogno prima di tutto di mangiare.

Il percorso condiviso sia con le istituzioni giudiziarie sia con il penitenziario della città metropolitana, prevedono che accanto a Gianni Zais sia consentito ad alcuni detenuti di accompagnare quest’ultimo nella consegna che viene fatto in alcune diocesi cittadine ( a proposito: vi ricordiamo che Milano Positiva cerca un benefattore per poter comprare un pulmino per distribuire il pane alla gente)

Un’esperienza importante che segna da vicino quei ragazzi che, macchiati di reati anche gravi, hanno così la facoltà di maturare la coscienza.della necessità di tanti e della sofferenza di troppi cui il contributo della.presenza oltre che del cibo offre ristoro a chi più di ogni altra cosa soffre di solitudine. Una condizione che molto detenuti hanno imparato a riconoscere come fratello nella propria esistenza, soprattutto qua do le.porte del carcere si chiudono dietro di te, generando una lacerazione con il mondo esterno e con le figure affettive che da quel momento non possono più incontrarli. Una scelta importante quella della nostra associazione: innanzitutto esserci per chi non ha la forza di vivere la dimensione del carcere se non nel senso di una punizione. Invece dal male si guarisce con l’amore, con le emozioni, scavando a fondo dentro il dolore di cui tanti, troppi, fuori dal carcere decidono di rinunciare. Una rinuncia fatale che porta all’ignavia e alla tracotanza di tanti anziani medici, sulla bocca di tutti oggi, che proliferano davanti alle telecamere con il loro narcisismo ferito e la loro rabbia repressa, che genera paura.

A volte si è in prigione anche a piede libero. E si è liberi pur essendo costretti all’esercizio di misure restrittive. Stare a contatto con il dolore può essere una chiave di volta per provare a cambiare. Mettendosi in prima linea per cambiare con la fatica di guardarsi attorno e capire la complessità sociale. Stare dentro la realtà, un modo per far finta di essere sani in un mondo di disturbati.