Ad un certo punto è sbottato. E l’intervista non s’è fatta. I giornalisti, come sempre, avevano preso la macchina e se n’erano venuti nell’eremo nerazzurro di Appiano Gentile. Ricca zona del comasco. Tra pinete, maneggi, e il vicino lago.
Antonio Conte ha sbattuto la porta. Qualcuno, il collega Italo Cucci, ha pubblicato una lettera su di un quotidiano sportivo romano, il Corriere dello Sport Stadio, in cui un tifoso del Bologna sbeffeggia il Mister. Apriti cielo. La lettera da missiva offensiva si trasforma in oltraggio. In dileggio. Conte viene accusato di aver perso con il Barcellona B, e di non saper fare un bel gioco con le sue squadre. Una critica. Dura magari. Ma una critica. Niente di personale. Nessun accenno al recente passato, al calcio scommesse e annessa squalifica: con cui da allenatore della Juve fu massacrato mediaticamente. Semplicemente: una critica, neppure troppo tecnica. Antonio Conte però afferma che la misura è colma. I giornalisti non hanno diritto, i giornalisti non devono, i giornalisti non possono.
Per cui Conte, se ne va. Puniti tutti. Anche e soprattutto tutti coloro che, a Milano, hanno sempre trattato Conte con rispetto, non facendo mancare qualche critica. Conte se ne va, “perché non ci sono più regole”. E quindi in assenza di regole, ha deciso di violare l’unica che sappiamo esserci: il rispetto degli impegni presi. Prima della partita c’è l’intervista con Mister Conte. Lui però decide di colpirne uno per educarne cento. Anche se forse ad essere colpiti sono i cento che c’entrano nulla.
Si dice che in realtà l’abbia deciso la società. Si dice che sia un escamotage dell’allenatore dell’Inter per creare motivazioni nella squadra. Per fare gruppo. Per individuare un nemico. Semplice strategia psicologica con scopo motivazionale. Resta il fatto che la libertà di stampa viene vilipesa due volte. La prima volta quando si dichiara guerra a chi non ti ha fatto nulla e s’ingaggia lo scontro senza neppure avvisare di voler scendere sul campo di battaglia. La seconda quando rendendosi conto di aver toppato, non si chiede scusa a chi s’è offeso senza motivo. Anzi: ci si alza indignati e si chiede, a chi non t’ha fatto nulla, di chiederti scusa. Ingaggiando lo scontro senza ragione alcuna. E voltando le spalle alla dignità violata dei giornalisti; e al buon senso. Tira una brutta aria quando un mister si sente in diritto, con le spalle coperte, di poter volgarmente dileggiare delle persone che guadagnano fino a 11.000 volte meno di lui. Tira una brutta aria se una persona, già colpita da un tribunale, sebbene semplicemente sportivo, si sente in diritto di assumere atteggiamenti lesivi della dignità delle persone. Senza coscienza di dover assumere atteggiamenti più congrui e più umili, rispetto alla condanna scontata come effetto di una colpa riconosciuta. A cagione di un rapporto di forza sproporzionatamente a vantaggio dell’allenatore della pedata nazionale. Qualcosa non torna in questa piramide rovesciata. Dove chi è ricco, ed assume atteggiamenti arroganti, si sente libero di poter violare lo spazio di libertà di chi ottempera al proprio dovere. Perché Antonio Conte ha tutto il diritto di sentirsi offeso e di adire le vie legali contro chi ritiene lo abbia offeso. Ma non ha nel nome dello stesso diritto quello di calpestare e limitare la libertà altrui e soprattutto di chi lavora. Cartellino rosso, mister.