Il pane non si calpesta, le continue proteste a Milano

Il pane non si calpesta. Esistono diverse modalità per protestare. Si può bruciare la bandiera del Paese cui appartieni, puoi bruciare l’effige del rappresentante politico che consideri responsabile di ingiuste scelte amministrative. Puoi scendere in piazza e gridare la tua indignazione.

Basterebbero già queste forme,per indurre molti a polemizzare o a contestarne il diritto al suo esercizio. In questi anni abbiamo visto di tutto: il 1 Maggio 2015 i black block con orologio Rolex al polso andarono a devastare il centro di Milano contro Expo, sollevando la rivolta dei milanesi che il giorno dopo si presentarono in piazza con spugna e ramazza per pulire ciò che gli incappucciati del giorno prima misero a ferro e fuoco.

Quello che non s’era mai visto è che tra i simbolici gesti che si potevano adottare qualcuno scegliesse di calpestare il pane, per non farlo ricevere ad una comunità Rom. Non accade a Milano ma a Roma, ma ad essere scosse da un gesto tanto sacrilego sono le coscienze di tutti, che non conoscono latitudini. Il Pane rappresenta simbolicamente nel cristianesimo l’essenza della salvezza, l’alimento dell’anima, il corpo di Cristo che attraverso la transustanziazione diventa elemento salvifico dell’umanità.

E fuori dalla simbologia cristiana, in senso laico, il pane è l’alimento primogenito della salvezza dei più poveri, alito di vita, fatto degli elementi essenziali: farina e acqua. Per ciò stesso simbolo dell’unione del grano, terra, e dell’acqua, cielo. In questa dualità di alto e basso, sta il senso stesso della vita, l’unità di testa e pancia, di logos inteso anche come spirito e di Eros, inteso come materia. C’è insomma l’unità richiamata dell’uomo. Ebbene calpestare il pane quale elemento salvifico, per richiamare il diritto a tutelare la propria esistenza, la dolorosa fatica di pagare le bollette, che quel pane salvifico escluderebbe dagli obblighi dei migranti, costituisce non solo un’offesa: ma un insulto a se stessi, al diritto di chi è povero di salvare la propria dignità con un umano riscatto morale.

Non è infatti togliendo ad altri la possibilità di salvarsi che si riscatta e si salva colui che vive di stenti, ma unendo ciò che la sofferenza della vita, spesso anche somma di errori umani, ha diviso. Guardare al creato potrebbe essere fecondo esercizio. Il cielo non si separa dalla terra, come il giorno non si separa dalla notte. Non è impedendo al sole di sorgere e di dare speranza di vita, che si scalzerà l’ombra delle tenebre e dell’abisso, dalla vita di molti. Semmai è condividendo la luce, che è possibile coltivare una speranza. Ammesso che gli uomini vogliano imparare a farlo. Ammesso che gli uomini imparino che anche un ceco può tornare a vedere, se la speranza viene coltivata. Non è negando la speranza che si coltiva la vita.

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