L’industria digitale si responsabilizzi, il caso in Australia

Industria digitale. L’occasione per una legge restrittiva è stata la strage di Churcland in Australia. Il Paese ha preso coscienza che i social possono diventare un veicolo per dare spazio ad un pazzo di riprendere in diretta una strage. Per cui hanno scritto una legge di due righe, che dice in sintesi: se un social network consente o permette che certi contenuti vadano in onda, allora pagherà o una multa pari al 10% del suo intero fatturato; oppure i responsabili dei social si fanno tre anni di carcere ( senza misure alternative, come in Italia)

Apriti cielo. Immediatamente le multinazionali del mondo social sono intervenute contestando la misura. La quale sancisce un principio: vuoi fare soldi nella vita? Vuoi farli, occupandoti di comunicazione? Benissimo, sei libero di farlo. Rispondi però di quanto viene scritto e pubblicato sul tuo social. Sono in tanti a scriverci? Pazienza: vorrà dire che dovrai dotarti di mezzi e strumenti e persone che impediscano che accada quello che è successo a Churchland. Non ce la fai? Non vuoi farlo? Allora chiudi. Ovviamente è partita la caccia alle streghe. “Non è legittimo chiudere chi voglia esprimere liberamente le proprie idee.” Questo si chiama fascismo.

Di fatto sancendo che la deresponsabilizzazione di qualunque cosa venga pubblicata sia diventata de facto condizione costitutiva di un broadcast. Il quale, con la scusa del diritto al libero pensiero, ha impresso una matrice fascista ai nuovi modelli comunicazionali: tanto che oggi si usano i social ( Ma anche i vecchi media, tra cui giornali e tv) per accusare o sputtanare la vita delle persone. La legge australiana afferma un principio: vuoi fare una cosa? Non te l’impediamo, ma rispondi di quello che fai, di quello che dici, di quello che lasci fare o lasci dire. E se qualcuno vìola le regole, tu che ne hai consentito la violazione, ne rispondi. Accade ogni giorno. Sulle autostrade, sui ponti, nelle sale operatorie, nelle carceri, nelle scuole. Ciascuno risponde di quello che fa o che lascia fare. Solo i social oggi possono ostentatamente e prepotentemente saltare alla giugulare del nemico di turno o trasformare in un santo la vita di una persona. Senza che nessuno, in qualche modo, chiami a rispondere questo mondo delle affermazioni da bar che al suo interno vengono fatte. Si chiama principio di responsabilità. Perché non la facciamo anche noi in Italia? Perché non stabiliamo che è giusto vi siano delle regole d’ingaggio nel fare informazione? Non puoi pubblicare tutto quello che vuoi, né puoi pretendere di avere delle risposte da qualcuno, estorcendogliele con gli inseguimenti per strada. Questa non è libertà. Perché la tua libertà d’informare finisce dove inizia la mia libertà di scegliere se darti o no le informazioni che mi chiedi. Solo un potere può pretendere in alcune precise circostanze di avere delle informazioni, senza le quali può decidere anche di privarti della libertà. Si chiama magistratura e può farlo solo se altri giudici ne autorizzano la liceità all’esercizio. Se fai informazione, invece, devi sottostare al principio di realtà della responsabilità individuale. E non è condivisibile. È sacrosanto.

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